Esiste un’intuizione particolare che a volte noi medici sviluppiamo, un sesto senso che va oltre la conoscenza scientifica. È qualcosa che non si impara sui libri di medicina, ma che si affina con l’esperienza clinica e l’osservazione quotidiana di pazienti e malattie. È proprio questo sesto senso che, circa un anno fa, mi ha portato a sospettare che qualcosa nel mio corpo stesse cambiando.
Non avevo sintomi evidenti, nessun dolore osseo, nessuna stanchezza debilitante, nessuno dei segni classici che avrebbero potuto far pensare al mieloma. Eppure, mi sentivo diverso. È difficile spiegare questa sensazione a chi non l’ha provata: non era una manifestazione fisica chiara, ma piuttosto una sottile alterazione della mia percezione di benessere, come se il mio corpo stesse cercando di comunicarmi qualcosa che la mia mente razionale non riusciva ancora a decifrare.
Nell’aprile del 2024, mi trovavo dal cardiologo per una visita di routine. Tutti i parametri risultavano nella norma, il cuore funzionava perfettamente, eppure quella sensazione persisteva. Fu allora che decisi di ascoltare quel sesto senso e richiesi alcuni esami del sangue aggiuntivi, non strettamente correlati alla visita cardiologica. Una decisione apparentemente casuale, ma che si sarebbe rivelata determinante.
Quando ricevetti i risultati degli esami, notai immediatamente alcune anomalie nei valori delle proteine. Come medico, sapevo che quelle alterazioni potevano essere indicative di diverse condizioni, tra cui il mieloma. Decisi quindi di approfondire con ulteriori indagini: elettroforesi proteica, immunofissazione, dosaggio delle catene leggere libere nel siero. Il quadro che emergeva diventava sempre più chiaro, e la diagnosi che temevo si stava delineando con crescente evidenza.
La conferma definitiva arrivò con la biopsia del midollo osseo, che rivelò la presenza di plasmacellule clonali in percentuale significativa. La diagnosi era chiara: mieloma multiplo in fase iniziale, quello che tecnicamente viene definito “smoldering myeloma” o mieloma asintomatico. Una condizione preclinica, caratterizzata dalla presenza di plasmacellule monoclonali nel midollo osseo, ma senza i danni d’organo tipici della malattia conclamata.
Ricevere quella diagnosi fu un’esperienza surreale. Improvvisamente, mi trovavo dall’altra parte della scrivania, non più il medico che comunica una diagnosi, ma il paziente che la riceve. Conoscevo bene la malattia dal punto di vista teorico, ma ora dovevo affrontarla come protagonista, non come osservatore esterno.
La fase di mieloma smoldering rappresenta un territorio clinico controverso. Non essendoci danni d’organo evidenti (le cosiddette manifestazioni CRAB: ipercalcemia, insufficienza renale, anemia, lesioni ossee), il trattamento immediato non è universalmente raccomandato. L’approccio standard in questa fase è quello del “watch and wait”, osservare e attendere, monitorando attentamente l’evoluzione della malattia con controlli periodici.
Come medico, comprendevo la razionalità di questo approccio: evitare terapie potenzialmente tossiche finché non strettamente necessarie. Come paziente, tuttavia, l’idea di convivere con una malattia potenzialmente pericolosa senza intervenire attivamente generava un comprensibile stato di ansia e preoccupazione.
Decisi comunque di seguire l’approccio standard, affidandomi a colleghi ematologi di cui stimavo la competenza professionale. Iniziò così un periodo di monitoraggio regolare, con esami del sangue mensili e controlli strumentali periodici. Continuai la mia vita normale, il mio lavoro, le mie abitudini quotidiane, ma con la consapevolezza costante di avere un “ospite indesiderato” nel mio organismo, un ospite silenzioso ma potenzialmente pericoloso.
Questa fase di attesa vigilante mi ha insegnato molto sull’importanza dell’ascolto del proprio corpo. Quel sesto senso che mi aveva portato alla diagnosi continuava a guidarmi, aiutandomi a distinguere tra normali fluttuazioni del benessere e potenziali segnali di progressione della malattia. Ho imparato a convivere con l’incertezza, a trovare un equilibrio tra la vigilanza necessaria e il rischio di diventare ossessionato dal monitoraggio di ogni minimo cambiamento fisico.
La diagnosi precoce, frutto di quel sesto senso e della mia formazione medica, si è rivelata un vantaggio significativo. Mi ha permesso di prepararmi psicologicamente all’eventualità di un trattamento, di informarmi sulle opzioni terapeutiche più recenti, di organizzare la mia vita professionale in previsione di un possibile periodo di terapia intensiva.
A chi si trova in una situazione simile, vorrei dire che ascoltare i segnali del proprio corpo, anche quelli apparentemente insignificanti, può fare la differenza. Non si tratta di ipocondria, ma di consapevolezza corporea. E se sei un medico che diventa paziente, ricorda che la tua conoscenza è un’arma a doppio taglio: può aiutarti a comprendere meglio la tua condizione, ma può anche generare ansia e preoccupazioni eccessive.
Trovare il giusto equilibrio è fondamentale.

