Gli Aspetti Psicologici

Affrontare una diagnosi di mieloma comporta un impatto psicologico profondo, un viaggio emotivo complesso che si intreccia con il percorso clinico. In questa sezione, vorrei condividere la mia esperienza personale, nella speranza che possa essere di conforto e ispirazione per chi si trova ad affrontare una situazione simile.

Il primo impatto: tra disperazione e razionalizzazione

La prima volta che ho visto il tracciato elettroforetico delle proteine del mio sangue, ho avvertito una sensazione di morte imminente. Come medico, conoscevo bene il significato di quei picchi anomali, sapevo cosa fosse il mieloma e, soprattutto, sapevo che si tratta di una malattia da cui, nella maggior parte dei casi, non si guarisce completamente.
In quei primi momenti, la mente corre verso scenari estremi. Ho contemplato persino il suicidio, un pensiero che può sembrare scioccante ma che rappresenta una reazione non infrequente di fronte a diagnosi così impattanti. Tuttavia, anche in quel momento di disperazione, la razionalità non mi ha abbandonato completamente: ho pensato alle conseguenze pratiche di un gesto simile, al fatto che le polizze assicurative non avrebbero pagato il premio alla mia compagna, lasciandola in difficoltà non solo emotiva ma anche economica.

Questa oscillazione tra emozione e razionalità ha caratterizzato tutto il mio percorso psicologico con la malattia. Come medico, sono abituato ad analizzare situazioni, valutare rischi, prendere decisioni basate su dati oggettivi. Come paziente, ho dovuto fare i conti con paure, speranze, momenti di sconforto che trascendono qualsiasi analisi razionale.

La fase di negazione e speranza

Dopo il trauma iniziale, sono entrato in una fase che potrei definire di “negazione costruttiva”. Mi sono convinto che la malattia, essendo ancora in una fase preclinica, non sarebbe progredita rapidamente. Ho sperato per mesi di poter evitare le terapie, aggrappandomi a ogni controllo che mi concedeva ancora tempo prima di iniziare il trattamento.

Ricordo la sensazione di sollievo dopo ogni visita in cui mi veniva detto che avremmo continuato a monitorare la situazione senza intervenire immediatamente. Tornavo al lavoro con un peso temporaneamente alleggerito, riprendendo la mia routine con rinnovata energia.

Questa fase di speranza e negazione parziale non è necessariamente negativa: ci permette di adattarci gradualmente all’idea della malattia, di metabolizzare la diagnosi senza esserne sopraffatti. L’importante è che non si trasformi in un rifiuto totale della realtà, che non impedisca di prendere le decisioni necessarie quando il momento arriva.

L’accettazione attiva e la ridefinizione delle priorità

Quando sono stato messo di fronte al fatto che era necessario iniziare la cura, ho dovuto cambiare mentalità. È stato un passaggio cruciale: dall’attesa passiva a un coinvolgimento attivo nel trattamento della malattia.

In questa fase, ho sviluppato quello che definirei un approccio di “accettazione attiva”.
Non si tratta di rassegnazione, ma di una presa di coscienza che mi ha permesso di affrontare la malattia con determinazione. Non ho paura di morire, ma ho acquisito una consapevolezza acuta della limitatezza del tempo a mia disposizione, e questo ha portato a una ridefinizione delle mie priorità.

Ho deciso di dedicare le mie energie alle persone che mi vogliono bene e ai miei pazienti. Come microchirurgo dell’occhio, ho la fortuna di svolgere un lavoro che ha un impatto diretto e positivo sulla qualità della vita delle persone. Dopo i miei interventi, i pazienti vedono meglio, e questa consapevolezza è diventata ancora più preziosa da quando ho ricevuto la diagnosi.

L’approccio professionale alla malattia

La mia formazione e la mia esperienza professionale hanno influenzato profondamente il modo in cui affronto la malattia. Sono abituato a programmare il lavoro, a catalogare ed eseguire gli interventi chirurgici in maniera metodica e precisa. Applico lo stesso approccio alla mia condizione: ho studiato a fondo la malattia e le terapie, mi informo costantemente, cerco di mantenere il controllo su ciò che mi sta accadendo.

Questa attitudine professionale mi aiuta a gestire l’ansia e l’incertezza. Conoscere i dettagli del trattamento, comprendere il significato di ogni esame, poter prevedere in parte ciò che mi aspetta mi dà un senso di controllo in una situazione che, per sua natura, comporta molti elementi imprevedibili.

Allo stesso tempo, la mia formazione medica mi rende consapevole dei limiti delle terapie attuali. So che dal mieloma guarisce meno del 10% dei pazienti. E una consapevolezza che potrebbe essere schiacciante, ma che ho scelto di trasformare in una motivazione per vivere al meglio il tempo che ho, per mantenere la migliore qualità di vita possibile.

La determinazione e la “giusta cattiveria”

Affronto tutte le fasi della terapia con serenità ma anche con quella che definisco la “giusta cattiveria”, ovvero la convinzione di poter vincere la battaglia contro la malattia.
Non si tratta di un ottimismo ingenuo o di un rifiuto della realtà, ma di un atteggiamento combattivo che mi permette di affrontare le difficoltà del trattamento con determinazione.

Questa determinazione si manifesta nel modo in cui gestisco gli effetti collaterali, nel come organizzo la mia vita attorno alle terapie, nel come continuo a lavorare e a coltivare relazioni significative nonostante la malattia. È un equilibrio delicato tra accettazione della realtà e rifiuto di lasciarsi definire o limitare dalla condizione.

Riflessioni per chi affronta un percorso simile

A chi si trova ad affrontare una diagnosi di mieloma o di un’altra malattia grave, vorrei dire che non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” di reagire emotivamente. Ogni persona ha il suo percorso, influenzato dalla propria personalità, dalle proprie esperienze precedenti, dal proprio contesto familiare e sociale.

Ciò che ho imparato è l’importanza di trovare un equilibrio tra l’accettazione della realtà della malattia e la determinazione a non lasciarsi definire da essa. Tra la consapevolezza dei limiti imposti dalla condizione e la volontà di vivere pienamente nonostante questi limiti.

Ho imparato anche il valore del supporto, sia professionale che personale. Condividere le proprie paure e speranze con persone fidate, siano esse familiari, amici o professionisti della salute mentale, può alleggerire il peso emotivo della malattia.

Infine, ho scoperto che, paradossalmente, la malattia può portare a una maggiore consapevolezza del valore della vita, a una più profonda apprezzamento per le relazioni significative, a una più chiara percezione di ciò che è veramente importante. Non è una “benedizione mascherata” – non romanticizzerei mai una malattia grave – ma è un’esperienza che può portare a una crescita personale e a una ridefinizione delle priorità che, in alcuni casi, arricchisce la qualità della vita che resta.

Mentre mi preparo al ricovero per l’autotrapianto, porto con me questa consapevolezza e questa determinazione. So che mi attendono momenti difficili, ma so anche che ho le risorse interiori per affrontarli, un passo alla volta, un giorno alla volta, con la stessa precisione e dedizione che metto nel mio lavoro di chirurgo.