A gennaio 2025 iniziai la fase di induzione del trattamento, un periodo di quattro mesi durante il quale mi sarebbero stati somministrati settimanalmente quattro farmaci in combinazione. Questa fase, fondamentale nel percorso terapeutico del mieloma, ha l’obiettivo di ridurre significativamente il carico tumorale prima di procedere con le fasi successive del trattamento.
Il protocollo prevedeva infusioni settimanali in regime ambulatoriale. Ogni settimana mi recavo in ospedale, dove trascorrevo diverse ore per la somministrazione dei farmaci. La routine era sempre simile: prima i prelievi per verificare i parametri ematici, poi un breve colloquio con l’ematologo per valutare eventuali effetti collaterali manifestatisi nella settimana precedente, infine la somministrazione vera e propria dei farmaci.
Nonostante la mia formazione medica mi avesse preparato teoricamente a ciò che avrei potuto sperimentare, vivere in prima persona gli effetti dei farmaci si rivelò un’esperienza completamente diversa. Ogni farmaco portava con sé una serie di possibili effetti collaterali, alcuni prevedibili, altri del tutto inaspettati.
Uno degli aspetti più complessi da gestire furono i dolori. Dolori strani, difficili da localizzare e da descrivere, che non riuscivo a classificare con certezza: erano dolori ossei, legati alla malattia stessa o alla sua risposta al trattamento? Erano dolori muscolari o tendinei, effetti collaterali dei farmaci? Questa incertezza generava a volte ansia e preoccupazione: ogni nuovo dolore poteva essere interpretato come un segno di progressione della malattia o come una normale reazione al trattamento?
Con il tempo, imparai a distinguere meglio le diverse tipologie di dolore e a sviluppare strategie per gestirle. Scoprii che l’integrazione con complessi vitaminici del gruppo B, magnesio, potassio e vitamina C mi aiutava significativamente a ridurre alcuni di questi disturbi. Non si trattava di una soluzione miracolosa, ma di un supporto che, insieme ai farmaci prescritti per il controllo del dolore, mi permetteva di mantenere una qualità di vita accettabile.
Un capitolo a parte merita il cortisone ad alte dosi, che mi veniva somministrato una volta alla settimana come parte del protocollo terapeutico. Gli effetti di questo farmaco erano potenti e bifasici: immediatamente dopo l’assunzione sperimentavo una fase di eccitazione ed euforia, caratterizzata da insonnia, aggressività, tono di voce molto alto e aumento dell’appetito. Era come se il mio corpo e la mia mente fossero costantemente “accelerati”, incapaci di rallentare o rilassarsi.
Questa fase durava circa tre giorni, durante i quali mi sentivo pieno di energia ma anche emotivamente instabile. Poi, gradualmente, quando l’effetto del cortisone iniziava a svanire, subentrava una fase completamente opposta: depressione, ansia, apatia. Il passaggio da uno stato di iperattivazione a uno di profondo abbattimento era brusco e difficile da gestire, sia per me che per chi mi stava vicino.
Imparai a prevedere questi cicli e a organizzare la mia vita di conseguenza. Nei giorni di “alta” da cortisone, canalizzavo l’energia extra in attività produttive, cercando al contempo di moderare le reazioni emotive eccessive. Nei giorni di “bassa”, mi concedevo più riposo, evitavo decisioni importanti o situazioni emotivamente impegnative, e cercavo il supporto di familiari e amici.
Nonostante questi effetti collaterali, riuscii a mantenere i miei ritmi di lavoro abituali durante tutto il periodo di induzione. Anzi, in alcuni momenti lavorai persino di più del solito, spinto dall’energia extra fornita dal cortisone. Questa continuità professionale fu per me fondamentale: mi permetteva di mantenere un senso di normalità e di controllo sulla mia vita, di sentirmi ancora me stesso nonostante la malattia e il trattamento.
Naturalmente, ci furono momenti difficili. Giorni in cui la stanchezza o il dolore erano particolarmente intensi, in cui gli effetti collaterali sembravano sovrastare tutto il resto. In quei momenti, dovetti imparare a rallentare, a chiedere aiuto, a concedermi il permesso di non essere sempre efficiente e produttivo.
Un aspetto che mi colpì particolarmente fu la variabilità individuale nella risposta ai farmaci. Come medico, sapevo che ogni paziente reagisce in modo diverso alle terapie, ma sperimentarlo in prima persona mi fece comprendere quanto questa variabilità possa essere significativa. Effetti collaterali che per altri pazienti erano debilitanti, nel mio caso si manifestavano in forma lieve o addirittura assente. Al contrario, sperimentai reazioni che non erano comunemente riportate o che si manifestavano in modo atipico.
Questa esperienza mi ha insegnato l’importanza di un approccio personalizzato al trattamento del mieloma. Non esiste una ricetta valida per tutti: ogni paziente deve trovare, in collaborazione con il proprio team medico, le strategie più adatte per gestire gli effetti collaterali e mantenere la migliore qualità di vita possibile durante il trattamento.
Alla fine dei quattro mesi di induzione, a maggio 2025, entrai in una fase di “pace terapeutica”: un mese senza trattamenti, durante il quale il mio corpo poteva recuperare e prepararsi alla fase successiva. Fu un periodo di graduale ritorno alla normalità, in cui gli effetti collaterali si attenuarono progressivamente e potei riprendere pieno controllo del mio corpo e delle mie emozioni.
Questo mese di pausa serviva anche come preparazione alla procedura di aferesi, il prelievo delle cellule staminali ematopoietiche che sarebbero state successivamente utilizzate per l’autotrapianto. Una procedura che, pur non essendo particolarmente dolorosa, richiede una preparazione specifica e comporta un certo impatto fisico.
L’aferesi consiste nel prelievo di cellule staminali dal sangue periferico attraverso un processo di filtrazione. Il sangue viene prelevato da un braccio, fatto passare attraverso una macchina che separa e raccoglie le cellule staminali, e poi reinfuso nell’altro braccio.
L’intera procedura dura circa tre ore e richiede l’inserimento di due cannule, una in ciascun braccio.
Prima dell’aferesi, mi furono somministrati farmaci specifici per stimolare la produzione e il rilascio di cellule staminali dal midollo osseo al sangue periferico. Questi farmaci possono causare dolori ossei diffusi, che nel mio caso furono gestibili con analgesici comuni.
Il giorno della procedura mi presentai in ospedale con un mix di ansia e speranza. Ansia per la procedura in sé, speranza perché quelle cellule rappresentavano un passo fondamentale verso il completamento del mio percorso terapeutico. Durante le tre ore di aferesi, rimasi collegato alla macchina, osservando il mio sangue che fluiva attraverso i tubi trasparenti, consapevole che stavo letteralmente raccogliendo le cellule che avrebbero potuto darmi una nuova possibilità.
Le cellule prelevate vengono poi congelate e conservate fino al momento dell’autotrapianto, quando verranno reinfuse dopo un trattamento ad alte dosi di chemioterapia. Un processo che chiude il cerchio del trattamento iniziale, offrendo la possibilità di una remissione profonda e duratura della malattia.
Guardando indietro a questi quattro mesi di induzione e al successivo periodo di preparazione all’aferesi, posso dire di aver attraversato un percorso intenso ma anche ricco di apprendimenti. Ho imparato a conoscere meglio il mio corpo, a rispettarne i limiti ma anche a valorizzarne le risorse. Ho scoperto una resilienza che non sapevo di possedere, una capacità di adattamento che mi ha sorpreso.
A chi si trova ad affrontare un percorso simile, consiglio di non sottovalutare l’importanza di una buona comunicazione con il team medico. Riferire puntualmente ogni effetto collaterale, ogni cambiamento nel proprio stato fisico o emotivo è fondamentale per permettere ai medici di adattare il trattamento alle proprie specifiche necessita.
Allo stesso tempo, è importante mantenere, per quanto possibile, elementi di normalità e continuità nella propria vita. Continuare a lavorare (se le condizioni lo permettono), a coltivare relazioni sociali, a dedicarsi alle proprie passioni può fare una grande differenza nella qualità della vita durante il trattamento.
Infine, non esitate a cercare supporto quando necessario, sia da professionisti che da familiari e amici. Affrontare il mieloma e il suo trattamento è una sfida complessa, che richiede risorse fisiche, emotive e psicologiche. Avere una rete di supporto solida può fare la differenza tra un percorso vissuto nella solitudine e nella paura e un percorso affrontato con consapevolezza e speranza.

